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La diffusione del tè in Giappone e il «Kissa yōjōki»

Vorrei condividere con Voi uno splendido articolo scritto da Silvio Calzolari su gategate.it, il portale dell'Unione Buddista Italiana.
https://gategate.it/la-diffusione-del-te-in-giappone-e-il-kissa-yojoki/

Nel libro «Bere il tè per coltivare e prolungare la vita», sono dettagliatamente analizzate tutte le varie vicende relative alla nomina a «Gon no Sōjō» del bonzo «Eisai» che, dopo il 1200, ebbe anche occasione di fondare diversi templi tra cui lo «Shōfukuji» a «Hakata», il «Kenninji» a «Kyōtō» e lo «Jufukuji» a «Kamakura». L’opposizione del clero «Tendai» del monte «Hiei» rese però difficoltosa la diffusione dei suoi insegnamenti ed» Eisai» dovette guadagnarsi il sostegno del secondo «Shōgun», «Minamoto no Yoriie» (1182- 1204) e di suo fratello «Minamoto no Sanetomo» (1192-1219). Pur non essendo stato il primo ad introdurre le idee dello «Zen» in Giappone, ad «Eisai» viene generalmente attribuito il merito di aver cercato di farne una Scuola indipendente, anche se il nostro bonzo si vide costretto a scendere a compromessi con le altre tradizioni buddhiste presenti nell’arcipelago nipponico; il «Kenninji,» per esempio, non fu dedicato esclusivamente allo «Zen», ma ospitò anche i bonzi del «Tendai» e quelli del Buddhismo esoterico «Shingon».

Infine, veniamo a parlare del tè e del «Kissa Yōjōki».

Nella seconda parte del libro «Bere il tè per coltivare e prolungare la vita», viene esaminato il «Kissa Yōjōki», il primo testo giapponese interamente dedicato al tè e ai suoi innumerevoli benefici per la salute. Fra l’altro, nell’appendice viene presentata una traduzione integrata degli unici due manoscritti di quel testo: il primo del 1211 e l’altro del 1214. Il manoscritto del 1211, molto diverso per contenuto e forma da quello del 1214 e assai poco conosciuto, è qui tradotto per la prima volta in una lingua occidentale.

Il «Kissa Yōjōki» è un libro ben strano e di difficile traduzione. È un vero e proprio trattato di medicina esoterica basata sul concetto di «shinshin ichinyo», ossia: «mente/spirito e corpo sono un’unica cosa». Un principio estraneo alla moderna medicina occidentale fondata invece sulla dicotomia «corpo/spirito» o per meglio dire» corpo e psiche/anima». Il termine «shinshin ichinyo» secondo il filosofo della religione giapponese «Yasuo Yuada» (1925-2005), sarebbe apparso per la prima volta nei testi buddhisti dell’epoca «Heian» ed «Eisai» l’avrebbe utilizzato nel suo «Kōzen gokokuron» per descrivere uno stato meditativo caratterizzato da una intensa e profonda concentrazione («samādhi»). Secondo «Eisai», in quella condizione spirituale: «ogni cosa e tutte le vicende del mondo, vengono abbandonati nell’unità di corpo e mente («shinshin ichinyo»), dove non c’è movimento né immobilità». In pratica, nel «samādhi» tutti i pensieri e le preoccupazioni del meditante, compresa la percezione dell’esistenza del corpo, scomparirebbero nell’unità indifferenziata del Tutto. Una simile esperienza fu descritta anche dal bonzo «Dōgen» nello «Zazenji» («Regole per la meditazione»), un saggio dedicato alle tecniche meditative, e nel «Bendowa»(«Discorso sulla pratica della Via»). I due saggi furono poi inclusi nello «Shōbōgenzō».

Ma torniamo al «Kissa Yōjōki».

Secondo la tradizione, «Eisai» avrebbe redatto la copia del «Kissa Yōjōki» del 1214 per donarla al terzo «Shōgun», «Minamoto no Sanetomo» spesso afflitto dai postumi di innumerevoli sbornie. «Eisai» gli avrebbe somministrato un trattamento a base di tè verde e poi gli avrebbe consegnato una copia di quel suo trattato consigliandogli di far spesso uso della preziosa bevanda. Nel libro, il nostro bonzo sintetizzò la visione della salute propria delle dottrine buddhiste con l’arte del bere il tè. Leggendo quel testo, da un’epoca a noi anche culturalmente lontana, «Eisai» ci guida in un mondo dove si mescolano le dottrine e le tecniche della medicina tradizionale cinese con l’arte di esorcizzare i demoni delle malattie e della mente attraverso l’uso di formule magiche (dhāranī), di magici suoni e di alcuni particolari gesti delle mani (mudrā) del Buddhismo esoterico. In quel libro, parlò del tè, dei suoi usi e delle sue preparazioni farmacologiche, ma combinò quegli argomenti con particolari dottrine probabilmente derivate da trattati di alchimia daoista e complesse visualizzazioni degli organi interni del corpo umano che ritenne fossero abitati da Buddha e da celesti divinità. «Eisai», in nome della dottrina delle «corrispondenze» dell’antica medicina cinese, utilizzò la teoria dei «cinque elementi» (acqua, fuoco, terra, legno e metallo) per sottolineare i numerosi effetti benefici che il tè avrebbe avuto sui diversi organi del corpo umano: fegato, cuore, polmoni, reni e milza. Ogni organo si sarebbe mantenuto sano grazie all’equilibrio dei «cinque sapori»: acido, amaro, dolce, piccante e salato: «… il fegato predilige i sapori aspri, i polmoni quelli piccanti, la milza quelli dolci, i reni quelli salati ed il cuore i sapori amari». In pratica, il nostro bonzo ritenne che mangiando i cibi di un dato sapore si sarebbe rafforzato l’organo corrispondente perché, secondo la dottrina delle corrispondenze, ciascun elemento avrebbe avuto il potenziale di far accrescere o decrescere gli altri elementi. L’acqua, ad esempio, avrebbe potuto promuovere e rafforzare il legno, ma avrebbe inibito il fuoco. Pertanto, in quel quintuplice sistema, se una componente fosse diventata troppo dominante avrebbe contribuito ad una produzione eccessiva della sua energia che avrebbe portato alla diminuzione delle altre e allo squilibrio dell’intero sistema. Così, «Eisai» affermò che se in una dieta si fossero preferiti solo certi sapori, gli organi corrispondenti a quei sapori si sarebbero rafforzati diventando opprimenti e dominanti a scapito degli altri. Secondo quel bonzo, la dieta giapponese sarebbe riuscita a garantire un sano equilibrio tra quasi tutti i sapori, ad eccezione del gusto amaro. La mancanza di quel sapore avrebbe portato ad un progressivo indebolimento dell’organo cardiaco che sarebbe stato all’origine di un gran numero di patologie. Per integrare quella carenza il nostro bonzo consigliò il consumo del tè verde, dal gusto amaro e astringente. Il tè verde, correlato all’organo del cuore («shin»; sede della mente e dello spirito) avrebbe garantito l’equilibrio energetico all’interno del corpo, la salute mentale ed una vita lunga, felice ed esente da ogni sorta di malattie. In realtà, il tè verde sarebbe stato utile anche per lenire i danni dell’eccessiva concentrazione mentale prodotta dalle estenuanti pratiche meditative e di visualizzazione. Anche se «Eisai», nel «Kissa Yōjōki», non parlò specificamente di quell’argomento, crediamo sia utile farne un rapido cenno. Nei trattati di medicina daoista cinese e in quelli sulle tecniche meditative in uso nel Buddhismo «Chan», più volte si mise in guardia gli adepti a non sforzarsi eccessivamente durante la meditazione per non fare insorgere stati patologici: depersonalizzazione, ansie, fobie e malattie di ogni genere. Una eccessiva concentrazione mentale, prodotta dalle pratiche meditative e di visualizzazione, avrebbe potuto portare ad un eccesso di «qi» (giap.: «ki»), cioè di «fuoco» nel cuore (sede dello spirito e della mente). Quell’abnorme incremento di energia nella zona cardiaca («shinka» = «fuoco nel cuore») avrebbe squilibrato tutti gli altri organi e fatto seccare i polmoni (che, secondo la medicina tradizionale cinese e giapponese sarebbero di natura metallica). Quello stato patologico fu chiamato in Giappone «zenbyō», ossia: «malattia dello Zen», oppure «majikyō», cioè «condizione demoniaca». Ecco perché, ancora oggi, in Cina e Giappone, gli adepti dei vari sistemi meditativi in uso sia nel Buddhismo «Chan» che nel Daoismo, nelle pause delle loro pratiche, sono soliti bere alcune tazze di tè verde o assumere pozioni rinfrescanti. Servirebbero a diminuire l’effetto del «fuoco del qi» e a ripristinare l’armonia fisica e spirituale scompensate da meditazioni troppo lunghe o forzate. Delle problematiche connesse alle malattie e ai disturbi derivanti dall’eccesso dell’elemento fuoco durante la meditazione, della sua cattiva circolazione all’interno del corpo umano, e dei rimedi per bloccarne gli effetti nefasti, ne parlò in modo approfondito il bonzo «Hakuin Zenji» (1686-1769) in due sue famose opere: lo «Yasenkanna» («Chiacchiere notturne in una barca») e l’«Orategama» («Il mio bollitore per il tè»). Parleremo di questi argomenti in un prossimo articolo di «Gate».

Ma ora torniamo ad «Eisai» che nel «Kissa Yōjōki» fornì anche alcune sommarie descrizioni della pianta del tè, delle sue foglie ed i fiori e su come cogliere e lavorare i germogli. Poi, nel secondo fascicolo di quella sua opera, il nostro bonzo si dilungò su altre erbe medicinali ed in particolare sul gelso (giap.: «kuwa»), impiegato anch’esso a scopi terapeutici, magici e soprattutto esorcistici.

Per «Eisai», il tè fu una straordinaria medicina per coltivare e mantenere la propria salute e uno dei segreti per ottenere una vita lunga, sana e serena.

Speriamo che questo libro «Bere il tè per coltivare e prolungare la vita» possa interessare non solo agli orientalisti e agli studiosi di medicina tradizionale cinese e giapponese ma anche a tutti gli appassionati cultori del tè.

Silvio Calzolari

NB: immagine
Mizuno Toshikata, Dans la série Préparation d'une cérémonie du thé (1897)

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